Unità d’Italia e Mezzogiorno - parte 6
di Silvio Gambino (Università della Calabria)
Redazione
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6. Istituzioni territoriali, politica e riforme
Nel
quadro dei tanti profili meritevoli di approfondimento, relativamente
al tema di analisi prescelto, proporremo ora alcune brevi riflessioni
conclusive volte a farsi carico di una tematica che era e (tuttora)
rimane centrale negli studi e nella pratica del diritto costituzionale
italiano: quella dei rapporti fra autonomia politica e autonomia
territoriale nel quadro di una forma di Stato pluralistica
costituzionalmente fondata sulla democrazia partecipativa.
Come è noto, soprattutto alla luce del fallito tentativo della
maggioranza di centro-destra (nella precedente legislatura) di varare
modifiche di rilievo della Costituzione, possiamo ben confermare come il
regionalismo italiano non sia di tipo federalistico, se non nella
esasperazione mitica di qualche leader e di qualche vandea regionale,
per mere esigenze territoriali e di propaganda politica57.
Nella
concreta realtà, la storia del regionalismo italiano si coniuga
felicemente con una delle categorie interpretative del costituzionalismo
maggiormente contestate dalla dottrina, ancorché frequentata nel
discorso politico e nell’analisi scientifica: la nozione di
‘costituzione materiale’. Costantino Mortati ne aveva approfonditamente
trattato nei suoi studi58.
Pur rifiutandosi di assegnarle capacità ermeneutiche idonee a mettere in
questione l’interpretazione del testo costituzionale, la dottrina
costituzionalistica da tempo ne ha tratto tutte le conseguenze,
limitandosi a coglierla come idonea a identificare lo iato esistente fra
il testo costituzionale e l’attuazione pratica che ne veniva (e ne
viene) data.
È appunto in questo genere di lettura – organica a mettere in tensione
dialettica un testo costituzionale formale con la sua attuazione – che
devono cogliersi le complesse e dinamiche relazioni venutesi a
determinare nel Paese fra un sistema costituzionalizzato di autonomie
regionali e locali (art. 5 e tit. V Cost.) e un inedito sistema di
partiti.
Specie quando quest’ultimo – sulla base del consenso assicuratogli dal
‘patto costituzionale’ fra cattolici, marxisti e liberali
(risorgimentali) – si è candidato a svolgere una funzione di
democratizzazione del Paese, riuscendo ampiamente nel compito, anche se
in uno scenario non indifferente alle scelte di lottizzazione dello
Stato (Giuliano Amato ha lucidamente parlato, a questo proposito, di
“governo spartitorio”).
Nell’ottica appena accennata si è pure
affacciata la problematica dell’effettività delle disposizioni
costituzionali, cioè della loro idoneità pratica a conformare i
comportamenti degli attori del sistema politico e sociale. In questa
dialettica politico-costituzionale, ritroviamo prassi amministrative e
comportamenti delle istituzioni rappresentative che si discostano dalla
previsione costituzionale, nel senso che quest’ultima, nella fase della
sua attuazione, veniva/viene concretamente asservita al ruolo
monopolista svolto, nella democrazia del Paese, dalle forze
politico-partitiche.
Lo ‘Stato dei partiti’ e la ‘democrazia dei partiti’ costituiscono
l’esito di tale processo, per come la migliore dottrina costituzionale
ha sottolineato. Uno Stato e un modello di democrazia – tuttavia – che
vede operare, per più di una metà di secolo, la scelta di non dare piena
attuazione a quel pluralismo istituzionale, rappresentativo delle più
significative novità istituzionali e costituzionali dello Stato
repubblicano.
Ne è seguita, in tal modo, quella ‘convenzione’, nei fatti contra
constitutionem, consistente: a) in un ‘congelamento’ quasi trentennale,
della Costituzione nelle disposizioni relative all’attuazione (per la
prima volta nella storia del Paese) del regionalismo; b) di un
congelamento, per un periodo ancora maggiore (fino alla legge n.
142/1990 e al successivo T.U.E.L.), delle disposizioni costituzionali
volte a dare piena attuazione al ruolo e alle funzioni delle autonomie
locali; c) di un congelamento, infine, ancorché temporalmente più breve,
di disposizioni fondamentali di primaria garanzia costituzionale, come
quelle relative al varo del Consiglio Superiore della Magistratura e
della Corte costituzionale.
La conclusione che se ne è tratta,
infatti, non pare molto esaltante rispetto alla considerazione
normativistica del diritto e di quello costituzionale in particolare. In
concreto, si è dovuto prendere atto, da taluni con insofferenza e con
significativi ritardi nelle relative analisi, che la Costituzione in
molte sue parti era rimasta “una Costituzione di carta”, rispetto alla
quale altre regole materiali si erano concretamente imposte.
Regole ideate e praticate da un sistema di partiti politici che, nella
storia politica del Paese, ha imposto la propria centralità e il
relativo protagonismo (più di uno studioso ha inquadrato tale tema con
il riferimento alla logica del monopolio), obnubilando il ruolo e la
natura di inner law propria della Costituzione scritta.
L’esito
contraddittorio di tale oscuramento della Costituzione formale, invero,
ha registrato manifestazioni in gran parte positive con riferimento sia
agli effetti della partecipazione politica di tipo partitico che di
quella referendaria nonché della partecipazione sociale diffusa. Ciò è
accaduto anche relativamente alla graduale e importante attuazione di
diritti sociali (come l’istruzione e la salute), che hanno concorso (e
contribuito) in modo significativo al processo di democratizzazione del
Paese e alla stessa sua modernizzazione negli apparati economici e di
accompagnamento delle trasformazioni sociali ed economiche.
Tuttavia, la positività di tali esiti si è accompagnata, fin dalla prima
ora, con una capacità pervasiva del sistema politico-partitico sul
sistema economico (pubblico e privato), nonché sull’amministrazione
pubblica, dando vita a ciò che la politologia e la sociologia politica
hanno ben colto con le categorie della “lottizzazione” e del continuum
politica-amministrazione.
Detto in grande sintesi, tale processo
appare centrale da richiamare per comprendere le sorti concrete del
regionalismo del Paese, alla ricerca delle sue ragioni, diremmo
strutturalmente politiche, e della relativa debolezza istituzionale. Una
debolezza che permane – fino ad acuirsi – anche dopo la crisi del
modello del ‘partito di massa’ e la relativa delegittimazione a partire
dai primi anni ’90, ma che, cionondimeno, ha aperto concrete possibilità
per una ripresa delle strategie istituzionali volte a dare piena
attuazione al modello costituzionale del pluralismo istituzionale
inscritto nella Costituzione, sia come principio ispiratore (art. 5) sia
nelle analitiche disposizioni di attuazione (Titolo V Cost.).
Un modello – quest’ultimo – che, per l’evidente discontinuità rispetto
al recente passato politico-istituzionale, qualcuno ha ben pensato di
qualificare semplicisticamente come federalistico, volendo con ciò
probabilmente sottolineare tutte le esigenze di responsabilizzazione dei
governi regionali e delle amministrazioni locali nella determinazione
di politiche appropriate e differenziate per i diversi territori del
Paese.
In conclusione, dunque, si può affermare la difficoltà a ben
comprendere l’attuazione della Carta costituzionale – rischiando di non
cogliere cosa abbiamo alle spalle nella metà di secolo appena trascorso –
senza avere culturalmente convissuto con l’idea di ‘costituzione
materiale’ di cui ci aveva parlato Mortati, intendendosi con tale
nozione l’interpretazione delle disposizioni costituzionali in modo
coerente e compatibile con le esigenze di protagonismo dei partiti della
maggioranza di governo e, in tale quadro, con la determinazione delle
politiche di sviluppo democratico e costituzionale dagli stessi
perseguite.
All’interno dei governi fondati sulla base di tale
interpretazione materiale della Costituzione sono state individuate e
praticate strategie politiche unitamente a strategie costituzionali, che
hanno visto la Carta costituzionale indifesa e anche vilipesa. Il
baricentro dell’attenzione politica, ma anche della ricerca
scientifico-costituzionale, si è quindi spostato all’esterno della
Costituzione formale, nei partiti politici e, soprattutto, nella logica
organizzativa che li ha caratterizzati fino agli anni ’90 del secolo
scorso.
Ciò è avvenuto con la nota clausola preclusiva (Leopoldo Elia l’ha ben definita conventio ad excludendum59)
nei confronti del maggiore partito della sinistra, il Partito comunista
e nei confronti del Movimento sociale (ancorché i voti parlamentari di
quest’ultimo partito siano stati ampiamente utilizzati a supporto di
molti governi di coalizione, a guida democratico-cristiana, succedutisi
nel tempo). La Costituzione ha sofferto di tutto questo. Ha vissuto il
congelamento di cui si è appena detto, costretta a sopportare la fase di
una sua attuazione gradualistica, ivi compreso nell’ambito del
regionalismo e dell’autonomismo.
Ne ha registrato tutto lo
scotto il ruolo delle autonomie politiche. Le altre autonomie, quelle
territoriali – che, invero, conoscevano una definizione costituzionale
della loro mission molto più precisa dal punto di vista della
positivizzazione costituzionale, con ambiti competenziali molto ben
disegnati e che per questo avrebbero dovuto poter funzionare di vita
propria –, nella concreta realtà, sono risultate perdenti rispetto ai
partiti politici e alle altre autonomie politiche, come quelle
sindacali, previste nella Carta con un ruolo di sviluppo della
democrazia partecipativa.
La democrazia territoriale ha vissuto, quindi, di vita grama e di quella
dipendenza dal centro, intendendo per tale “le teste pensanti” della
rappresentanza politico-partitica, ovvero i vertici del sistema
partitico nazionale. Dopo gli eventi internazionali del “1989”, si
assiste, in Italia, ad una sorta di eterogenesi dei fini per quanto
concerne i rapporti fra sistema istituzionale e sistema politico.
A partire da tale data, infatti, con la (piena esplicitazione della)
crisi del sistema politico-partitico, il Paese ritrova condizioni
ottimali affinché le autonomie regionali e quelle locali riprendessero
lo spazio di protagonismo istituzionale che già la Costituzione del ’48
aveva per esse previsto ma che la ‘costituzione materiale’ aveva, nei
fatti, se non proprio negato, fortemente svalutato.
Alla fine del decennio ritroviamo, così, le riforme costituzionali del
1999/2001, che vanno a rafforzare la forma di governo regionale, con la
disponibilità offerta (costituzionalmente) alle regioni di optare (in
sede di statuto) fra un modello di elezione diretta del Presidente della
Giunta regionale e un modello di elezione consiliare (in tale caso, in
continuità con il passato).
Un rafforzamento dell’Esecutivo che per molte regioni ha significato,
nei fatti, un suo indebolimento, quando si rifletta alla inadeguatezza
di quelle opzioni statutarie che hanno ritenuto di poter svalorizzare il
ruolo e le funzioni di partecipazione politica istituzionalizzata dei
partiti politici. Nel 2001, il processo riformistico arriva a piena
maturità con la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà
(verticale e orizzontale, melius istituzionale e sociale), con la
valorizzazione dei comuni nell’esercizio della funzione amministrativa e
con il rafforzamento (ancorché in gran parte incerto e confusionario)
delle competenze legislative delle regioni.
In conclusione, dunque, non possiamo comprendere le ragioni profonde
della crisi del regionalismo italiano, perdurata anche dopo la riforma
costituzionale del 2001, se non teniamo in considerazione che, fino al
1989, si è registrato un protagonismo politico-istituzionale del sistema
politico-partitico e una caratterizzazione di tale sistema come poco o
per nulla rispettosa della regola costituzionale del “metodo
democratico” imposta alla vita interna dei partiti politici.
Nei
confronti di tale sistema, dopo il 1989, si è verificato un effetto
dirompente, con la crisi del modello del partito politico di massa, che
ha visto riscrivere le regole culturali, ideali, statutarie, di
riferimento di questi importanti centri politico-comunitari che, per
moltissimi profili e con diverso esito, hanno costituito una parte
centrale, la vera ‘architrave’, della vitalità democratica e del
costituzionalismo del Paese nel sessantennio che abbiamo alle spalle.
Così, soprattutto in ragione della vitalità politica della nostra
Costituzione, pienamente confermata dal “patriottismo costituzionale”
espresso dal corpo elettorale in sede referendaria, nei sessant’anni
appena trascorsi, il tema centrale della politica costituzionale era
quello di dare attuazione alla Costituzione in tutte le sue parti – e il
Titolo V ne costituiva indubbiamente una parte centrale e innovativa
rispetto allo Stato liberale –. Oggi abbiamo un altro tema centrale che è
dato dalla crisi della politica, ove quest’ultima è rappresentata da un
ceto affannato nella vana ricerca del suo ruolo di tramite, importante
ma non certo esclusivo, rispetto all’attuazione della Costituzione.
Per tale ragione, occorre riprendere tale tematica onde bloccare (o
almeno limitare) le pericolose derive plebiscitarie e populistiche in
corso da almeno un ventennio nel sistema politico-istituzionale del
Paese; occorre riprendere tutte le ragioni volte a sostenere – a partire
dalla dottrina più avvertita per continuare con tutti i cittadini – un
forte senso etico-politico, le ragioni della morale pubblica, quella
‘eticità repubblicana’ senza il cui rispetto rischierebbe di venir meno
lo stesso consenso diffuso assicurato fin qui alla Carta costituzionale.
Occorre, per questo, far diventare strategico nella politica
istituzionale del Paese, delle regioni e delle comunità locali, la
tematica della riqualificazione della rappresentanza politica e con essa
il rafforzamento delle funzioni e delle organizzazione rappresentative.
Nell’ottica di una compiuta legittimazione democratica dello Stato
repubblicano e dello stesso superamento delle fratture presenti nel
Paese, rispetto ad una condivisa identità nazionale, occorre ricercare e
convenire su una tavola comune di valori democratici, sui quali non è
dato confliggere politicamente e culturalmente ma che vanno accolti come
presupposto ad ogni confronto politico e ideale.
L’obiettivo di una simile strategia (culturale e politica) è quello di
portare a compiuta maturazione il modello di democrazia costituzionale
elaborato sessanta anni addietro, nella fase costituente (patto
costituzionale) fra le forze politiche popolari, operando in tal modo un
ricongiungimento sotto
l’alveo costituzionale delle distinte (e
ancora conflittuali) identità politiche, espressioni di diverse e
risalenti ‘comunità di valori’, per troppo tempo indisponibili ad
ascoltare le ragioni dell’altro.
La conclusione, così, rinvia alla sottolineatura di una necessarietà
culturale, politica e storica, quella di una ricongiunzione fra identità
nazionali fin qui praticate nel Paese e Stato repubblicano. Un mancato
perseguimento di un simile obiettivo lascerebbe il Paese combattuto
sulla piena validità dei suoi valori costituzionali e sulla relativa
loro idoneità a costituire motivo di superamento delle divisioni e della
definitiva condivisione dell’Unità nazionale.
Un contrasto – questo – che impedirebbe il necessario consenso sui
processi di riforma utili se non anche necessari, sia nella
razionalizzazione della forma di governo parlamentare sia nella
modernizzazione dei processi e degli apparati amministrativi.
1
Per i profili comparati, fra gli altri, cfr. almeno cfr. P. Biscaretti
Di Ruffia, Corso di diritto pubblico comparato, Milano, 1984; G. De
Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Padova, 1981; G. De
Vergottini, “Modelli comparati di autonomie locali”, in Aa.Vv.,
Organizzazione e diritto delle regioni, 1982; G. Lombardi, Premesse al
corso di diritto pubblico, Milano, 1986; A. Pizzorusso, Corso di diritto
comparato, Milano, 1983; C. Mortati, Le forme di governo, Padova, 1973;
L. Elia, “Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto, (ad vocem).
2
Cfr. F. Barbagallo, “Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i
conflitti sociali”, in G. Sabbatucci e V. Vidoto (a cura di), Storia
d’Italia. III. Liberalismo e democrazia 1887-1914, Roma-Bari, 1995.
3 Nella letteratura in lingua italiana, cfr., almeno, P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995), Roma, 1997.
4
Cfr. M.S. Giannini, “I pubblici poteri negli Stati pluriclasse”, in
Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1979; S. Cassese, “I caratteri
originari e gli sviluppi attuali dell’amministrazione pubblica
italiana”, in Quaderni costituzionali, 1987, 3; S. Cassese,
“Concentrazione e dispersione dei poteri pubblici”, in Il comune
democratico, 1983; Biscaretti di Ruffia nella sua “Introduzione” a “La
regionalizzazione in Europa occidentale”, in Aa.Vv. (Archivio I.S.A.P.),
La regionalizzazione, Milano, 1983; G. Bognetti, “Le regioni in Europa:
alcune riflessioni sui loro problemi e sul loro destino”, in Le
regioni, 1984, 6; L. Vandelli, Poteri locali, Bologna, 1990.
5 Sul punto, sia consentito rinviare anche al nostro Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977.
6
Cfr. L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, 1994;
A. Banti, La nazione del Risorgimento, Torino, 2000; D. Beales ed E.
Bigini, Il Risorgimento e l’unificazione italiana, Bologna, 2002).
7
Fra altri, cfr. AA.VV., La Rivoluzione Napoletana del 1799, Napoli,
1899 (Ristampa anastatica); G. Marotta, Ideali etici e politici e
primato della cultura nella storia del Mezzogiorno, 1991.
8 Cfr.
G. Ressa, Il Sud e l’Unità d’Italia, Napoli, 2004 e soprattutto C.
Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia (1848-1948), Roma-Bari, 1983
(cap. III dedicato alla “unificazione politica e alla costruzione
dell’aparato statale”).
9 Cfr. R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita (1855-1864), Firenze, 1999.
10
Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari,
1976; A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, 1997.
11
Cfr. G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, Imola, 1906-90, vol. LXXVII;
Id., Pensieri sulla democrazia in Europa, Milano, 2007 (ult. ed. a cura
di S. Mastellone). Fra gli altri, cfr. anche R. Sarti, “Giuseppe
Mazzini e la tradizione repubblicana”, in M. Ridolfi (a cura di),
Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le
istituzioni e le simbologie republbicane, Milano, 2003.
12 Cfr. A. Scirocco, Garibaldi, Bari, 2001; A. Herzen, Mazzini e Garibaldi, Roma, 1995.
13 Cfr. L. Cafagna, Cavour, Bologna, 2002; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, 1969.
14
Del quale, in particolare, si veda l’opera (postuma) La rivoluzione
francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni
comparative.
15 Cfr. F. Chabod, Storia della politica estera
italiana dal 1870 al 1896, Bari, 1951; R. Martucci, L’invenzione
dell’Italia unita (1855-1864), Milano, 1999, p. 243 ss.
16 Cfr.
C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia (1848-1948), Roma-Bari,
1983; C. Ghisalberti, Stato Nazione e Costituzione nell’Italia
contemporanea, Napoli, 1999; F. Cammarano, Storia politica dell’Italia
liberale, Bari, 1999; R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita
(1855-1864), Milano, 1999; A. Banti, La nazione del Risorgimento,
Torino, 1985; G. Lombardi, Principio di nazionalità e fondamento della
legittimità dello Stato, Milano, 1975; M. Cossutta, Stato e Nazione.
Un’interpretazione giuridico-politica, Milano, 1999.
17 Cfr. A.
Giovagnoli, “Storia d’Italia, storia della Repubblica. Le
interpretazioni e le discussioni storiografiche”, in M. Ridolfi (a cura
di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le
tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, 2003.
18
Cfr. C. Pavone, “Le idee della Resistenza: fascisti e antifascisti di
fronte alla tradizione del Risorgimento” (1959), ora in Id., Alle
origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità
dello Stato, Torino, 1995; M. Baroni, “Miti di fondazione. Il
Risorgimento democratico e la Repubblica, in M. Ridolfi (a cura di),
Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le
istituzioni e le simbologie republbicane, Milano, 2003.
19 Cfr.
P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema
politico 1945-1996), Bologna, 1997; M. Fioravanti, “Costituzione,
amministrazione e trasformazione dello Stato”, in A. Schiavone (a cura
di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica,
Roma-Bari, 1990.
20 Cfr. U. Chiaramonte, Il dibattito sulle
autonomie nella storia d’Italia (1796-1996). Unità – federalismo –
Regionalismo – Decentramento, Milano, 1998; Id., “Le autonomie nella
storia d’Italia”, in Storia contemporanea in Friuli, 1999, n. 30.
21 Cfr. G. Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Napoli, 2005.
22 Cfr. L. Del Boca, Indietro Savoia, Milano, 2003.
23
Cfr. D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Roma-
Bari, 1999. Nella stessa ottica, Paolo Mieli (Storia e politica.
Risorgimento, fascismo e comunismo, Milano, 2001) sottolinea che “… la
stagione risorgimentale e post-risorgimentale è fatta di migliaia di
morti, lotte, spari, massacri … il popolo rimase sordamente ostile,
perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla
Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali
abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio
in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero sud …”.
24 Cfr. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, 1932.
25 Cfr. A. Gramsci, Il Risorgimento, Torino, 1949.
26 Cfr. S.J. Wolf, Il Risorgimento italiano, Torino, 1981; R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1959.
27
Cfr. U. Cerroni, Precocità e ritardo nell’identità italiana, Roma,
2000; S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni,
Milano, 1998; F. Adornato, “L’Unità e l’identità della Nazione di fronte
alle sfide del XXI secolo”, in I Quaderni di Liberal, Dicembre 2009.
28
Cfr. U. Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del
Risorgimento, Torino, 1992; S. Soldani e G. Turi (a cura di), Fare gli
italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, 1993; F.
Tarozzi e G. Vecchio (a cura di), Gli italiani e il tricolore.
Patriottismo, identità nazionale e fratture sociali lungo due scoi di
storia, Bologna, 1999.
29 Cfr. N. Bobbio, Carlo Cattaneo e
gli Stati uniti d’Italia, Torino, 1945. Cfr. anche M. Tesoro, “Il
federalismo democratico. Dal Risorgimento all’Assemblea Costituente”, in
in M. Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia
attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie republbicane,
Milano, 2003.
30 Cfr. G. Carocci, “L’allargamento del
suffragio nel 1882”, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati
statali dall’Unità al fascismo, Bologna, 1976.
31 Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia (1848-1948), Roma-Bari, 1983.
32
Cfr., almeno, G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Una
società tra identità nazionale e integrazione europea, Bologna, 1993;
Id., Patria e Repubblica, Bologna, 1997: M. Viroli, Per amore della
patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Roma-Bari, 1995; E.
Galli Della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione
tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, 1996.
33
Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale … cit.; A. Petracchi, Le
origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Venezia, 1962.
34
Fra gli altri, cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità,
Madrid, 1983; R. Villani, Il Sud nella storia d’Italia, Bari, 1970; M.
Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, Soveria Mannelli,
1998; S. Scarpino, La guerra ‘cafona’. Il brigantaggio meridionale
contro lo Stato unitario, Milano, 2005.
35 Cfr. G. Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Torino, 2009.
36 Cfr. R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, 1993.
37 Cfr. S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Roma, 2004.
38
S. Cassese l’ha descritta come ‘meridionalizzazione’ della burocrazia
pubblica, in Questione amministrativa e questione meridionale.
Dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’Unità ad oggi, Milano,
1977.
39 Cfr. G. Ruffolo, Un paese troppo lungo … cit.
40
A fronte di questo scenario, un solo dato per tutti al fine di
ricordare come il Sud ha provato a risolvere i suoi problemi di
sostanziale abbandono, nella fase post-unitaria fino ad epoca più
recente: dal 1861 ai primi anni ’70 del ’900, circa ventisette milioni
di italiani sono emigrati all’estero (nelle Americhe e in Paesi
europei); nei soli primi venti anni del ’900, dei 4.711.000 italiani
emigrati in America, ben 3.374.000 provenivano dal Mezzogiorno. Si
tratta di cifre che, se confrontate con la più modesta emigrazione
odierna dal continente africano, fanno seriamente riflettere sul vero e
proprio spopolamento dell’Italia dopo e a seguito dei processi di
unificazione politica del Paese (A.F. Rolle, Gli emigrati vittoriosi,
Milano, 2003).
41 La definizione è sempre di Giorgio Ruffolo, op. cit.
42
Cfr. A. Spadaro, “Costituzionalismo versus populismo (Sulla c.d. deriva
populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali
contemporanee)”, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Napoli, Vol.
V, 2009; S. Gambino, “La forma di governo in Italia fra Parteienstaat e
Premierato assoluto”, in Scritti in onore di Franco Modugno (in corso
di stampa).
43 Cfr. G. Marotta, “Pasquale Saraceno. Unità
nazionale e Mezzogiorno” (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
Napoli), per il quale “… il vero scontro (esistente nel Mezzogiorno
d’Italia) è quello tra il potente, implacabile e spietato «blocco
sociale» e lo Stato, tra la cultura mafiosa, cioè la cultura del non
Stato, e la vera cultura che è quella delle istituzioni. Il vero
obiettivo del «blocco sociale» non è lo sfruttamento del lavoro dei
contadini e degli operai, ma è il saccheggio del pubblico erario
attraverso procedure distorte e deroghe legislative e la riduzione a
plebe, a mafia e camorra, di una parte delle nuove generazioni. Viene
così impedita nel Mezzogiorno ogni possibilità di vita democratica e
soffocato il respiro e l’affermazione dello Stato moderno. La violenza
privata costringe intere popolazioni a vivere nella cultura del degrado,
in una realtà urbanistica che è l’immagine palpabile della cultura del
«blocco sociale» e del trionfo della pratica mafiosa e camorristica:
strutture fatiscenti, da Agrigento a Napoli e al suo hinterland fino
alla capitale della Repubblica e oltre, condizioni di disperata
precarietà, un orrore ambientale e urbanistico. Un intero popolo è stato
costretto ad emigrare in tutte le direzioni e a vivere in una
situazione precaria di povertà o di semipovertà perché qualunque
provvidenza dello Stato, qualunque risorsa degli enti pubblici viene
rapinata e saccheggiata dal «blocco sociale» che impone la cultura del
degrado, che abbassa ogni tentativo di cultura alla sub-cultura del
privato, che costruisce pessime ed inutili opere pubbliche, riuscendo a
strappare allo Stato e agli enti pubblici la programmazione e la
direzione dei lavori pubblici e dei collaudi; che costringe la
popolazione a vivere in abitazioni fatiscenti, in un degrado generale
delle strutture abitative, scolastiche, ospedaliere, universitarie, che
usa la camorra per incendiare e far saltare le opere pubbliche, come il
Palazzo di giustizia nel Centro direzionale di Napoli, perché mal
progettate e mal costruite. Il «blocco sociale» abbassa il livello
morale della società civile, si espande in tutto il paese e allunga gli
artigli sulle grandi opere pubbliche dell’intero territorio, sulle
costruzioni ferroviarie, sulle canalizzazioni dei fiumi, provoca gli
incendi dei boschi, costruisce con denaro pubblico immensi stabilimenti
industriali destinati fin dall’inizio alla rottamazione e fa terra
bruciata di ogni risorsa e tutto saccheggia, vivendo non degli ideali
della cultura, ma dell’ideale «di un’allegra giornata di saccheggio»
come scrive Croce nella Storia del Regno di Napoli”.
44 Sul
punto, rinviamo agli approfondimenti operati nel saggio storico di R.
Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale,
Bologna, 1980.
45 Cfr. R. Martucci, L’invenzione dell’Italia
unita … cit.; A. Scirocco, Governo e Paese nel Mezzogiorno nella crisi
dell’unificazione (1860-1861), Milano, 1963.
46 Cfr. S. Gambino,
“Istituzioni territoriali e Politica: ripensare il regionalismo politico
del Paese”, in Astrid Rassegna, 2008, Vol. 63, n. 1.
47 Cfr. M. Pacini, Scelta federale e unità nazionale. Scelta federale e unità nazionale, Torino, 1994.
48 Cfr. G. Ruffolo, op. cit.
49 Cfr. G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Torino, 1945.
50 Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, 1955.
51 Cfr. G. Ruffolo, op. cit.
52
Cfr. C. Ghisalberti, Unità nazionale ed unificazione giuridica,
Roma-Bari, 1979; P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995),
Roma, 1997; E. Ragionieri, “Accentramento e autonomie: istanze e
programmi”, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali
dall’Unità al fascismo, Bologna, 1976.
53 Cfr. A. Petracchi, Le
origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Venezia, 1962;
C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da
Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano, 1964; M.S. Giannini, “Autonomie
comunali e controlli statali”, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli
apparati statali dall’Unità al fascismo, Bologna, 1976; U. Chiaramonte, “
Le autonomie nella storia … cit., p. 12 ss.
54 Cfr. P. Farneti,
“La classe politica della Destra e della Sinistra”, in I. Zanni Rosiello
(a cura di), Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, Bologna,
1976.
55 Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale … cit.
56 Cfr. G. Talamo, “Il problema delle Regioni nella cultura politica del Risorgimento”, in AA. VV., Le Regioni, Torino, 1971.
57
Nell’ampia bibliografia, sul punto, cfr. anche, di recente, S. Gambino
(a cura di), Diritto regionale, Milano, 2009 e la bibliografia ivi
citata.
58 Cfr. C. Mortati, La costituzione in senso materiale,
Milano, 1940. Cfr. inoltre M. Galizia e P. Grossi (a cura di), Il
pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano, 1990; M. Galizia (a
cura di), Forme di Stato e forme di governo: nuovi studi sul pensiero di
Costantino Mortati, Milano, 2007.
59 Cfr. L. Elia, “Governo (forme di)”, in Enciclopedia del diritto, ad vocem.
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