Unità d’Italia e Mezzogiorno - prime 5 parti
di Silvio Gambino (Università della Calabria)
Redazione
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Sommario: 1. Premessa. – 2. Unificazione politica e identità nazionale: una questione aperta. – 3. Unità d’Italia e questione meridionale. – 4. Unità d’Italia e (incerte) prospettive federalistiche. – 5. Unificazione politica e
modelli di governo locale. – 6. Istituzioni territoriali, politica e riforme.
1. Premessa
Le
forme di Stato moderne e contemporanee, pur non risultando facilmente
comparabili rispetto alla natura (e alla stessa intensità) del
decentramento territoriale dei poteri, ritrovano un punto comune di
riferimento intorno a tre principali modelli statali ideal-tipici: lo
Stato unitario, lo Stato federale e quello confederale (quest’ultimo, in
verità, costituendo poco più che un’astratta categoria tipologica)1.
Al primo di questi modelli, unitario e stato-centrico, si è ispirato il
processo di costruzione dello Stato italiano nelle contrastate vicende
relative alle sue origini (150 anni fa) e nelle politiche seguite dal
liberalismo italiano post-unitario2. Gli aspetti fondamentali
del modello di Stato unitario, come è noto, sono dati
dall’accentramento e dalla centralizzazione amministrativa, nonché dalla
previsione, nelle relazioni con le collettività locali, di un sistema
autoritativo esclusivo dello Stato, di tipo gerarchico. L’archetipo è
costituito dal modello francese3, che si differenzia
dall’assetto organizzatorio dei rapporti fra centro e periferia
sperimentato già da vecchia data nel costituzionalismo britannico, con
il riconoscimento di forme di autonoma rilevanza politica agli organismi
territoriali esponenziali delle realtà territoriali4.
La
centralizzazione e l’uniformità amministrativa, che sono fra gli
aspetti che, a partire dal caso francese, maggiormente caratterizzano le
esperienze europee di Stato unitario, si fondano sull’argomentazione
(istituzionale e politica) secondo cui tali profili organizzatori
esprimono, integrano e perfezionano l’unificazione politica degli Stati,
divenendone perciò un elemento indefettibile. Unità, centralizzazione e
uniformità costituiscono, così, altrettanti profili caratterizzanti la
rete istituzionale dei rapporti fra potere politico centrale, territorio
e cittadini, fra autorità politico-amministrative centrali e
amministrazioni locali e che, quasi ovunque, come le singole realtà
nazionali testimoniano, si sono accompagnate con la negazione e/o la
compressione dei livelli di governo locale e, quando previsti in sede
costituzionale, nella loro amministrazione attraverso formule di governo
standardizzate e uniformi sul territorio, prescindendo cioè dalle
diversità culturali e politiche delle diverse realtà regionali e locali.
A tale fondamentale profilo organizzativo si è conformato lo Stato ad
amministrazione centralizzata, che ha garantito il processo di
unificazione politica dei singoli Stati-nazione in Europa e, al loro
interno, la formazione e il consolidamento, nel secondo dopo-guerra, di
quei centri di potere politico-comunitari, come i partiti politici, che
si sono evoluti nel tempo come nuove istituzioni sociali-comunitarie5.
2. Unificazione politica e identità nazionale: una questione aperta
Centocinquanta
anni ci separano dalla proclamazione del Regno d’Italia, celebrata a
Torino, il 7 marzo 1861. Con tale evento si concludeva la “fase eroica”
del Risorgimento italiano, che tante passioni civili era riuscito a
promuovere e con esse tanti eroismi, esaltati dalle guerre
d’indipendenza dall’Austria6 e dall’aspirazione ai principi liberal-democratici del costituzionalismo francese7.
L’assunzione da parte di Vittorio Emanuele II del titolo di Re
d’Italia, immediatamente riconosciuto dall’Inghilterra, assumeva, al
contempo, un preciso significato politico, volto a “sanzionare le
annessioni compiute, (ad) annichilire le speranze di restaurazione dei
principi deposti, (ad) arrogarsi la sovranità sulle Due Sicilie che
venivano cancellate dal novero degli Stati europei, e (a) mettere
l’ipoteca sui territori del Papa non ancora usurpati e su quelli ancora
sotto dominio austriaco”8.
Senza tali tensioni volte a
riconoscere le esigenze di un processo di riunificazione politica ad un
Paese che geograficamente si proponeva all’Europa del tempo come
naturalmente unitario (benché frammentato in una congerie di piccole e
di medie statualità), le importanti disponibilità diplomatiche e
militari dell’Inghilterra ma anche della Francia a consentire (ciò che
in seguito la storia del Paese avrebbe ricordato come) “l’impresa dei
Mille” non sarebbero riuscite nell’intento di realizzare una
occupazione/annessione del Regno (borbonico) delle Due Sicilie,
sostenendo e accelerando, così, il processo di unificazione politica
dell’Italia9.
Tale obiettivo, al contempo politico e istituzionale, poteva essere
desiderato e sostenuto dagli Stati pre-unitari e dall’Europa del tempo
alla sola condizione che non lo si affermasse espressamente (ma
soprattutto che non lo si praticasse in modo da evidenziare una palese
aggressione ad un pacifico regno dell’epoca, quello borbonico, retto al
tempo da Francesco II, ultimo Re delle Due Sicilie). Il diritto
internazionale, le relazioni diplomatiche esistenti, la posizione di
Roma e del Papato e (naturalmente) il Regno delle Due Sicilie10, che ne era l’aggredito principale, non lo avrebbero potuto consentire.
Mazzini,
Garibaldi e Cavour, ognuno per la sua parte e tutti nel loro complesso,
erano stati ideatori e sostenitori di questo processo di unificazione:
il primo con la forza e la lungimiranza delle idee propugnate11, il secondo combinando consenso politico e scaltrezza militare12;
il terzo con la capacità diplomatica esercitata sia nei confronti dei
Paesi europei del tempo sia nei confronti della stessa famiglia regnante
piemontese, la Casa Savoia13.
Pur non riuscendo compiutamente ad integrare Stato (nascente) e Nazione,
tuttavia, il pensiero risorgimentale risulta ben più complesso e
articolato di quanto non si possa ritenere, coinvolgendo, fra gli altri,
pensatori e scrittori come Manzoni14, Cattaneo, Gioberti,
Rosmini, Ricasoli e lo stesso dibattito costituzionale presente negli
Stati Uniti d’America e soprattutto nella Francia rivoluzionaria.
Anche
nell’ottica di una necessaria riconciliazione del Paese con la sua
storia risalente e recente (non priva invero di contraddizioni), per le
ragioni appena evocate, l’analisi del Risorgimento e dell’Unità d’Italia
dovrebbe tornare a occupare un posto importante nel dibattito
politico-istituzionale del Paese, a partire, in primis, dalla
programmazione del sistema scolastico.
L’obiettivo, in tal senso, è di concorrere alla formazione di una
cultura nelle giovani generazioni che le porti a ritrovare le
(risalenti) ragioni alla base del processo di unificazione politica del
Paese e dello stesso coraggioso e decisivo apporto di minoranze
illuminate (soprattutto) del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. In
tale ottica, non dovrebbero sussistere timori né nei territori che
costituirono un tempo il Lombardo-Veneto, né in quelli che costituirono
un tempo ambito di sovranità territoriale del Papato, né infine in
quelli del Regno delle Due Sicilie.
Se proprio, dal Sud, qualcosa di aggiuntivo dovesse essere ricordato a
chi questa Unità oggi pare non apprezzare, questo consiste nel ricordare
che un contributo importante e risolutivo alla unificazione politica è
venuta appunto dal Nord, dal Piemonte in primis, dalla Lombardia e per
essi dalla lungimirante intellighentia liberal-democratica del tempo.
Poiché
appare difficile negare l’evidenza storica di ciò che si è prodotto 150
anni addietro, l’unificazione politica del Paese non può che essere
colta come una sfida storica e politico-culturale che non ammette
ripensamenti tardivi. Né a Nord né a Sud del Paese! Con le annessioni
assistite da plebisciti15 prima, e con l’unificazione in
seguito, si trattava di ricostruire un senso di appartenenza nazionale
capace di riunificare ben 12 Stati (ridotti a 9 dal Congresso di Vienna
del 1815, e poi subito dopo a 7), che ne costituivano la base storica di
riferimento.
A testimoniare la complessità del processo di formazione dell’identità
nazionale, d’altra parte, si ricorda come, nel tempo, non si disponeva
di una lingua comune a favore di molte lingue dialettali, che rendevano
del tutto difficile ogni possibilità di comunicazione fra i diversi
territori. Lo stesso Primo Ministro del Regno d’Italia, Camillo Benso
Conte di Cavour si esprimeva abitualmente in lingua francese; nella
stessa lingua venivano prodotti gli atti del Regno di Sardegna.
Lo stesso Cavour dichiarava nei suoi scritti di non aver mai conosciuto
altri centri urbani al di là della città di Firenze. In termini
essenziali, il successo dell’unificazione politica del Paese appare
tanto più sorprendente quando si consideri che, nella fase calda del
Risorgimento italiano, nel “caldo” 1848, mancava del tutto in Italia
l’idea di uno Stato unico quale espressione di una Patria comune, di una
Nazione italiana16. Forte, al contrario, si presentava lo spirito municipalistico, almeno al Nord del Paese.
Le interpretazioni storiografiche convengono nel riconoscere gli effetti
dello State building, della costruzione dello Stato, ma quest’ultimo
non si accompagnava con la formazione della Nazione17. Una
mancata integrazione (fra Stato e Nazione) che, nelle intepretazioni (di
una parte) degli storici, rinvierà alla Resistenza (contro il fascismo)
il riconoscimento di un “secondo Risorgimento” volto a completare il
primo con un compiuto senso dello Stato e della Nazione18.
La cultura cattolica, marxista e laico-risorgimentale, in sede di
Assemblea costituente, e già prima con l’affermazione dei partiti di
massa19, seppe trarre tutte le conseguenze di questo “patto costituzionale” nell’adozione
della
Carta costituzionale del 1947. Tanto per ricordare come la necessarietà
politica di una idea di Nazione italiana ha costituito per decenni il
portato di élites (ampiamente) minoritarie, ma capaci di disegnare, per
una mera configurazione geografica quale era l’Italia del tempo, lo
spazio di una necessaria sua ricongiunzione sotto l’unico tetto di uno
Stato riunificato.
Intellettuali e politici come Mazzini, Cattaneo, Gioberti, Cavour –
ognuno per la sua parte – avevano tratteggiato progetti di unificazione
politica del Paese, secondo modelli fra loro divergenti:
repubblicano-centralistico per Mazzini, repubblicano-federale per
Cattaneo, monarchico-federale per Gioberti. Su tali idee/modelli ha
prevalso un principio di continuità, affermandosi in tal modo l’idea
monarchico-centralistica voluta dai Savoia, alla quale hanno contribuito
in modo risolutivo, e ognuno per la sua parte, le competenze militari e
politiche di Garibaldi e quelle diplomatiche e politiche di Cavour20.
Viste
in questa ottica, tuttavia, le idealità e le tensioni democratiche
espresse nel corso del Risorgimento, con le sollevazioni che lo hanno
accompagnato e (soprattutto) con le guerre di indipendenza dalla
dominazione austriaca, hanno parzialmente fallito rispetto agli
obiettivi attesi di democratizzazione dello Stato, con l’esito non certo
esaltante del consolidamento della monarchia (sabauda) e di una sua
influenza tanto marcata, da far parlare di una vera e propria
“piemontesizzazione” del sud21.
Considerato dal sud e
dalle sue popolazioni, e in ragione dello spirito che ha promosso e
accompagnato i moti risorgimentali – uno spirito liberale, laico e
talora illuminista – l’esito di un simile processo di unificazione
merita più adeguati approfondimenti. Accreditate letture storiche,
accanto agli indubbi esiti positivi conseguenti alla formazione dello
Stato unitario, hanno letto nell’affermazione del Risorgimento “la
frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il
mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura
con il Meridione”22.
Contrariamente alla versione presentata nei libri della storia
ufficiale, come ha osservato uno studioso inglese del processo di
unificazione del Paese, “il popolo meridionale non partecipò al
Risorgimento” 23. La brevissima ricostruzione di alcuni dei
passaggi storici (e degli attori) dell’Unità italiana porta anche a
richiamare, senza che in questa sede se ne possano sviluppare le
argomentazioni, le tesi interpretative più significative sul
Risorgimento italiano, da quella di Benedetto Croce24 a quella di Antonio Gramsci25.
Allo
stato, le brevi riflessioni svolte ci possono aiutare a chiudere questo
primo approccio al tema che ci siamo riproposti di affrontare,
sottolinenando che il Risorgimento costituisce un evento centrale nella
storia politica del Paese, benché le forme seguite dalla unificazione
politica, di tipo illiberali, hanno evidenziato assoluta inadeguatezza
rispetto alla stessa realizzazione dell’auspicata finalità unitaria26.
Alla ricerca di una positiva unificazione politica dell’Italia espressa
dal movimento risorgimentale, infatti, si è risposto con un
(assolutamente inaccettabile) processo autoritario di ‘militarizzazione’
del Sud e di dismissioni di attività economico-produttive validamente
operanti durante il regime borbonico, che è all’origine della frattura
registrata fra Nord e Sud del Paese e della tuttora carente idea di
nazionalità condivisa27, soprattutto dalla prospettiva meridionale.
Realizzata
l’unificazione politica rispetto alla molteplicità e alla variegatezza
(in termini dimensionali e di stabilità storico-politica) delle
statualità che inizialmente componevano gli scenari statuali presenti in
Italia,
risultava del tutto evidente che l’unità fosse lungi
dall’essere stata realizzata. Lo era centocinquant’anni fà, lo è
tuttora, con un non superato dualismo Nord-Sud, che ci ripromettiamo di
riprendere successivamente. Fatta l’Italia, si trattava di prendere atto
che ‘mancavano ancora gli italiani’ e occorreva lavorare adeguatamente a
tale finalità28. Rispetto a tale obiettivo, il modello
seguito dai Savoia – quello dell’accentramento statale e della
centralizzazione amministrativa – poteva forse apparire perfino
obbligato. In questo contesto storico, pur risultando del tutto
auspicabile che una simile idea potesse trovare pratica attuazione nel
ceto politico e istituzionale del tempo, il modello federale-confederale
di Cattaneo non ebbe successo29.
La ricostruzione di
una base culturale comune e di una piena identità degli italiani fu da
alcuni leaders individuata nell’organizzazione del processo educativo di
massa e nella pienezza della partecipazione politica a seguito della
universalizzazione del suffragio30 (per come sarebbe
effettivamente avvenuto dopo il fascismo) e nelle riforme istituzionali
(Spaventa, Minghetti, Sella, Depretis, Giolitti), mentre da altri fu
invece individuata nella guerra (Crispi, Mussolini)31.
Tali prospettive, in modo più o meno completo, hanno fallito nel loro
obiettivo, consegnando alla breve storia del Paese il compito di
continuare in tale opera. Il dibattito attuale nel Paese, nel suo 150°
Anniversario, nel fondo, rimane ancora questo. Quale ruolo assegnare
allo Stato nell’unificazione politica del Paese, nella ri-creazione di
un’idea di Nazione che integri/surroghi la risalente idea di Patria32?
Quale spazio può giocare in questa direzione la valorizzazione ultra
vires dell’autonomia politica regionale, a fronte di un quarantennio di
esperienza fallimentare (tranne limitate eccezioni) dell’istituto
regionale?
Ne parleremo in seguito, richiamando il tema della riforma
costituzionale del regionalismo italiano, che più di uno si ostina a
definire federalismo, senza che il dato costituzionale formale possa
confermarlo.
3. Unità d’Italia e questione meridionale
Leggendo
la storia senza la pretesa di poterne modificare o incrinare il
percorso già effettuato, occorre sottolineare come il Risorgimento e
l’unificazione politica del Paese hanno indubbiamente risolto problemi
importanti di tipo storico-politico e culturale-sociale, superando una
frammentazione di Stati (grandi e piccoli), nonché un significativo
divario (culturale ed economico) che avrebbe escluso l’Italia dal
consesso delle grandi potenze europee (ma anche internazionali) del
tempo, e nello stesso futuro europeo.
Tuttavia, quello che l’Unità d’Italia, nelle forme che sono state
storicamente seguite, non poteva risolvere era il deficit conoscitivo,
dal punto di vista economico e sociale, da parte della Casa regnante dei
Savoia, circa le condizioni profondamente eterogenee del Paese, le
quali si presentavano drammaticamente esasperate al Sud nei primi anni
successivi all’unificazione. Ciò tanto più quando si considerino le
conseguenze connesse alla precoce morte di Cavour, un leader competente e
capace di cui il Paese (probabilmente) non ha conosciuto pari nel
seguito della sua storia nazionale.
In ogni caso, la destra
storica, che si è fatta carico di guidare i primi passi del nuovo Regno
d’Italia, si è trovata a dare le risposte a tali condizioni che erano
non certo quelle più adeguate quanto piuttosto quelle concretamente
disponibili e che godevano di un know how istituzionale immediatamente
utilizzabile: una organizzazione costituzionale dei poteri dello Stato
di tipo accentrato, con una articolazione territoriale dei poteri
amministrativi di tipo uniforme e soggetta al vigile controllo
preventivo e successivo dello Stato, come vedremo meglio in seguito33.
In questa forma di organizzazione dello Stato, se da una parte venivano
accolti i nuovi principi costituzionali di separazione dei poteri (nello
spirito dell’art. 16 della Déclaration des droits de l’homme et du
citoyen), dall’altra non c’era molto spazio per la differenziazione
amministrativa e (almeno inizialmente) nemmeno per l’elettività delle
cariche di vertice nelle amministrazioni territoriali.
Il Nord con le esperienze di amministrazione municipale ispirate alle
idee e alle pratiche amministrative del Lombardo-Veneto, di ispirazione
austriaca, ha indubbiamente sofferto una conformazione indebita, anche a
livello di efficienza dei servizi amministrativi, alle pratiche e ai
modelli amministrativi delle regioni meridionali. Per il Sud, lo Stato
liberale post-unitario ha invece individuato e usato i modi forti,
secondo il ‘modello del bastone’ più che della ‘carota’.
Il decennio del brigantaggio (vera e propria “guerra civile”, secondo alcuni storici)34,
quale manifestazione di tutti i malesseri di un meridione dai problemi
assolutamente sconosciuti ai nuovi governanti (piemontesi), come si
ricorderà, viene superato con la sospensione delle garanzie
costituzionali, con la militarizzazione (pressoché completa) delle
regioni meridionali, e con una repressione militare senza pari (legge
Pica), che ha lasciato nel Sud una scia di rancore che si può ben
immaginare capace di consolidare giudizi di astio verso il Nord e scarso
senso di identità nazionale (ma anche statale).
Come si fa bene
osservare, “gli italiani (‘i piemontesi’) in tutti i modi si
comportarono tranne che come liberatori. Delusero le speranze delle
plebi contadine, per le quali la parola ‘libertà’ non aveva altro
significato che l’aspirazione alla terra e alla liberazione dalla fame.
Introdussero nuove e più pesanti vessazioni fiscali, amministrative,
militari. Assunsero fin dall’inizio modi di superiorità sprezzante.
Non soltanto verso le plebi contadine. Anche verso quella classe di
‘galantuomini’ subentrata in parte all’aristocrazia feudale e che, per
parte sua, si comportò durante la repressione in modo più che ambiguo”35.
Insomma, un dolente cahier de doléance che non può essere sottovalutato
se si vuole riprendere e superare quel processo di differenziazione
Nord-Sud, che tuttora conosce manifestazioni problematiche, che vanno
dal carente senso civico (di una parte) delle popolazioni meridionali36, al
radicamento delle mafie37,
alla lottizzazione (clientelare) dello Stato e delle amministrazioni
territoriali, con conseguente svalutazione e appropriazione privata
della funzione pubblica, alla occupazione burocratica dello Stato38.
“La verità – come si fa ancora osservare – è che il Nord, una volta annesso il Sud politicamente, ha proseguito per conto suo”39. Un’analisi – quest’ultima – amara e sconsolata, che pare obiettivamente difficile da contestare40.
Saltando a piè pari (per economia di trattazione) il periodo storico del
fascismo, e senza profonderci (come pure vorremmo) nelle vicende
dell’attualità, segnate dall’emergere di un “populismo privatistico e
ludico”41, di tipo cesaristico42, lo scorrere
degli eventi economici e politici soprattutto dell’ultimo ventennio
disegnano uno scenario allarmante di “minaccia di decomposizione
nazionale”.
A voler seguire quest’analisi, lucida e senza grandi incertezze,
insomma, ci troveremmo di fronte al fallimento della unificazione
nazionale dell’Italia e con essa al venir meno, ora per allora, del
consenso popolare che, senza rilevanti differenze geografiche nel Paese,
aveva portato alla edificazione di uno Stato nazionale nato dalla
confluenza di storie e di percorsi diversi.
La ‘questione
meridionale’, in questa ottica autorevolmente frequentata (da Fortunato a
Salvemini, da Gramsci a Dorso, da Nitti a Saraceno), in breve, non si
presenta come una questione di forme di articolazione territoriale del
potere statale, di regionalismo piuttosto che di federalismo. La
questione nodale era e resta quella di riannodare un doloroso nodo
storico, colmando un solco profondo che “la conquista delle due Sicilie”
da parte della Casa Savoia aveva tracciato e che non si è mai
completamento rimarginato.
Se questa osservazione cogliesse nel
segno, si tratterebbe di ripensare in modo più approfondito alle
problematiche che attraversano attualmente il Paese: da una parte, la
“rivolta nordista” – la ‘questione settentrionale’ – , ancorché le
modalità nelle quali si concretizza assumono più le forme della
jacquerie che quelle di una questione seriamente allarmante, e
dall’altra – questa sì fortemente preoccupante – della “deriva mafiosa”,
della vera e propria occupazione della gran parte delle regioni del Sud
da parte delle mafie.
Il Sud abbandonato a se stesso diventerebbe più facile preda della
occupazione/lottizzazione mafiosa, con effetti sulla società, sulle
istituzioni e sui singoli che si possono facilmente immaginare. Il Nord,
a sua volta, rischia di portare a buon fine quella ‘secessione fredda’
che un accordo politico all’interno dell’attuale maggioranza
parlamentare pare agevolmente dischiudergli. Evitare il primo e il
secondo dei possibili esiti della crisi politica, in corso da tempo,
impone forze politiche chiaramente legittimate e soluzioni istituzionali
all’altezza della sfida da vincere.
Che rimane pur sempre quella di consolidare una Unità nazionale capace
di riconoscere e di riconoscersi nel pluralismo istituzionale dei suoi
territori, come cercheremo di argomentare meglio in seguito.
4. Unità d’Italia e (incerte) prospettive federalistiche
Nel
1861, l’Italia si è data forma (costituzionale) e contenuti
(storico-politici) di uno Stato unitario. Occorre ora continuare a
operare per consolidare una idea di Nazione italiana, capace di
riconoscere e valorizzare la diversità e la pluralità delle culture e
delle esperienze storico-statuali che hanno preceduto la formazione
dello Stato unitario.
Molte e di direzione opposta sono ora le pulsioni che attraversano nel
profondo il corpo del Paese. E non sempre, né solo, in modo silente!
Nell’analisi appena svolta le abbiamo riepilogate, innanzitutto, nella
minaccia di una secessione ‘fredda’, in quanto non appare molto
credibile la minaccia di una violenza rivoluzionaria che coinvolga
l’intero Nord (con buona pace delle allusioni illegali al ‘popolo in
armi’ da parte del Ministro delle riforme, on. Bossi!).
In
secondo luogo, abbiamo colto più di una traccia di queste pulsioni nella
minaccia concreta di debordamento delle diverse mafie operanti nelle
regioni meridionali dall’alveo dell’illegalità (nel quale sono confinate
e perfino tollerate, come denunciano coraggiosi pubblici ministeri
impegnati nel loro contrasto giudiziario), per candidarsi in modo più
diretto al governo/amministrazione di regioni e autonomie locali
meridionali. Peraltro, ciò non significa uno sconfinamento di tali
organizzazioni delinquenziali nelle sole regioni del Sud del Paese,
essendo noto da più tempo il loro interessamento (soprattutto nel
controllo dell’edilizia ma anche del mondo bancario-finanziario) per
regioni del Nord del Paese e perfino per altri Stati del Nord-Europa
(Germania e Svizzera, soprattutto).
Ora – per come hanno già
osservato accreditati commentatori (di fatti) politici – appare come
minimo dubbioso che la piena attuazione del federalismo fiscale possa
soddisfare, nel tempo medio-lungo, le aspirazioni/aspettative
(‘rivoluzionarie’) del ceto politico leghista. Ma se così fosse,
rimarrebbe comunque posto e non risolto un malessere che, in alcune
delle aree più produttive del Paese, ha assunto le forme (risalenti e
attuali) della minaccia secessiva, più o meno strisciante, più o meno
credibile. Un malessere che chiede comunque di essere riconosciuto (se
non perfino legittimato) e governato con politiche istituzionali e
costituzionali all’altezza della serietà della sfida e della gravità
della minaccia.
Visto dalla prospettiva del Sud, questo malessere
assume soprattutto le forme di una forte attenzione delle (diverse)
mafie territoriali volto al controllo delle amministrazioni pubbliche,
sia autonomistiche che decentrate. Non mancano – naturalmente –
resistenze e di qualità! Innanzitutto, quelle di magistrati coraggiosi,
determinati a non arretrare rispetto all’obiettivo della garanzia della
legalità e dello Stato di diritto.
Non mancano neppure politiche lungimiranti di contrasto dei tentativi di
penetrazione mafiosa nelle amministrazioni territoriali, mettendo al
riparo appalti e contratti pubblici. L’istituzione di Stazioni Uniche
Appaltanti ne costituisce una buona riprova. Facendo un passo indietro e
guardando direttamente in faccia alla composita realtà
politico-istituzionale che andiamo osservando, non possiamo non rilevare
come, nell’ottica delle questioni analizzate, il modello costituzionale
della ‘Repubblica delle autonomie’ disegnato dalle riforme
costituzionali del 1999/2001, nel fondo, registri molti limiti.
Quanto
al riadeguamento della distribuzione delle competenze-(poteri) fra
Stato, regioni ed enti locali secondo un criterio razionale e di
adeguatezza (che rapporta l’interesse da governare con il livello
istituzionale più adeguato nel farlo), la Corte costituzionale, da anni,
sta procedendo nel ridisegno della mappa dei poteri pubblici che era
stata malamente disegnata dal legislatore di riforma costituzionale (fra
competenze esclusive dello Stato e competenze concorrenti e/o
esclusive/residuali delle Regioni).
Per il resto, si registra un evidente scollamento fra le
aspettative/previsioni autonomistiche (di comuni, province, città
metropolitane e regioni) e la loro mancata partecipazione in una istanza
costituzionale idoneamente prevista allo scopo e capace di assicurare
la volontà partecipativa (multilaterale) del sistema autonomistico alla
formazione della volontà dello Stato. La trasformazione del Senato
della Repubblica in una ‘Camera delle autonomie’ costituiva (e
costituisce tuttora) la scelta obbligata per un modello come quello
delineato dalla riforma costituzionale.
L’accesso anche degli enti locali alla Corte costituzionale avrebbe
dovuto (e dovrebbe tuttora) accompagnare una simile strategia di
riforma, per assicurarne quella equi-ordinazione che la riforma
costituzionale ha voluto sancire. Accanto alle incertezze politiche e
istituzionali connesse alla distribuzione territoriale delle competenze,
si registrano ulteriori questioni connesse all’abrogazione delle
disposizioni costituzionali relative ai controlli sugli atti
amministrativi delle regioni e degli enti locali (nonché degli enti da
questi dipendenti), che ha lasciato spazio alle incursioni indebite e
illegittime della politica.
Una politica spesso alleata con la burocrazia per l’organizzazione del
clientelismo e di un vero e proprio affarismo volto a conseguire
finalità non certo politico-partitiche ma di appropriazione privata,
secondo una tradizione risalente nella vita politico-istituzionale del
Paese43.
Nelle regioni meridionali tutto questo ha
comportato (e tuttora comporta) l’evidente necessarietà del ricorso al
giudice penale, con gli effetti delegittimanti (dell’azione
amministrativa) che tale intervento produce agli occhi dei cittadini. Le
casse dello Stato e con esse il principio di legalità ne hanno pagato
lo scotto. La Corte dei Conti nei suoi Report per il Governo dà
pienamente conto di questa evidente “débacle” dell’Erario: enti
territoriali e aziende sanitarie locali dell’intero Paese
ultra-indebitati e con essi il riscontro pieno del fallimento delle
politiche istituzionali in materia di gestione dei servizi sanitari
mediante il ricorso a dirigenti-managers.
A fronte di un simile
quadro si colloca la sfida costituita dal federalismo fiscale, che, nel
dare attuazione alle previsioni costituzionali in materia (art. 119
Cost.), viene motivato soprattutto con l’esigenza
(politico-istituzionale) della responsabilizzazione della classe
politica e di governo regionale e locale. Salvo ad analizzare, come
faremo in altra occasione, alcuni dubbi di (in)costituzionalità di
talune disposizioni della legge n. 42/2009 (di attuazione dell’art. 119
Cost., in tema di federalismo fiscale), gli obiettivi di
responsabilizzazione istituzionale del ceto politico dei governi
regionali e locali sono indubbiamente da condividere.
Direi perfino che non si potrebbero comprendere le ragioni di chi questo
obiettivo non dovesse (o non volesse) condividere. In questo senso, si
può forse spiegare il voto maggioritario del Parlamento nell’approvarne
la legge (di delega) di attuazione. Naturalmente, l’analisi dovrebbe a
questo punto profondersi sulla grave crisi registrata dai partiti
politici, che li ha trasformati, nella loro gran parte, in ‘partiti
personali’ e comunque in strutture comunitarie del tutto prive di
democrazia interna, per come richiede la Costituzione.
In tema di attuazione del federalismo, inoltre, permane il ragionevole
dubbio che le previsioni di attuazione possano discriminare in modo
inaccettabile le regioni meridionali rispetto a quelle del Nord. Una
simile previsione qualora confermata farebbe correre il rischio della
introduzione di una politica fiscale che evocherebbe in modo sinistro la
“tassa sul macinato” introdotta dai governi post-unitari, che fu
all’origine, secondo la gran parte degli storici, del fenomeno del
brigantaggio nelle regioni meridionali.
In quella tragica occasione, la repressione fu il solo strumento che lo
Stato liberale seppe maneggiare per riportare la situazione sotto
controllo44. È da auspicare che simili dubbi possano
risultare effettivamente eccessivi. Rimane tuttavia che, se così non
fosse, quel solco già profondo a suo tempo tracciato a divisione del
Nord dal Sud del Paese, a seguito delle politiche repressive dei primi
governi liberali dello Stato post-unitario, continuerebbe ad
approfondirsi – questa volta sì – rischiando di rompere in modo grave e
forse definitivo l’Unità nazionale e con essa la stessa legittimazione
politica dello Stato.
Quest’ultima venne alla luce, come abbiamo ricordato in precedenza,
appena 150 anni fa! Un tempo ancora troppo breve per il prodursi di
pratiche di tranquilla continuità e di stabilità politico-istituzionale.
Si trattava, infatti, per come abbiamo sottolineato più volte, di una
Unità del Paese nata in modo precario, in quanto fondata più sulla
lungimiranza democratica, liberale e laica di minoranze illuminate, che
avevano promosso e accompagnato il Risorgimento nei suoi passi, che sul
diffuso consenso politico delle popolazioni e dei territori un tempo
parti delle statualità poi confluite/annesse allo Stato, al momento
della unificazione politica del Paese.
Un’analisi – quest’ultima – che può risultare convincente quando si
rifletta al consenso prestato – nella fase post-eroica della ‘impresa
dei Mille’ – da parte delle popolazioni meridionali, culturalmente e
perfino idealmente conformate alle politiche del Regno (borbonico) delle
Due Sicilie prima, drammaticamente impoverite (nella economia e nelle
libertà) dalle politiche repressive e dalle politiche tributarie della
Casa Savoia successivamente45.
Le prime e le seconde ponendo le premesse di un dualismo Nord-Sud e di
una ‘freddezza astiosa’ verso lo Stato centrale e i governi territoriali
(che non può non cogliersi)!
Se una razionalità di fondo potesse
essere individuata nel trascorrere dei decenni, dei regimi e degli
uomini politici, come anche nelle forme organizzative e nelle culture
delle popolazioni nel loro relazionarsi con le forme statuali, in
conclusione, l’Unità d’Italia, (soprattutto se) vista dalle regioni
meridionali del Paese, racconta di un processo unitario di alto valore
ideale e politico, una vera e propria sfida storica allorché la stessa
fu progettata dalla intellighentia risorgimentale, dalle ispirazioni
ideali liberal-democratiche, e portata ad esistenza con lungimiranza
culturale e politica (pur nel quadro di artifici militari e di ipocrisie
diplomatiche).
Per troppi profili, tuttavia, come si è detto in precedenza, si
tratta di un processo incompiuto, tuttora aperto al divenire delle
dinamiche economiche, culturali e politico-istituzionali. Un processo
che per raggiungere i suoi obiettivi deve accompagnarsi con un ceto
politico, ispirato al rispetto dell’etica pubblica e del principio di
legalità, con la definizione di procedure amministrative chiare e
trasparenti che assicurino il rispetto delle regole dello Stato di
diritto, in unum con la presenza diffusa delle istituzioni statali nelle
regioni meridionali46.
Questo tema, come si vede, rinvia alla necessità di riqualificazione
della politica e di ripensamento delle forme di selezione delle
rappresentanze alle cariche istituzionali. È la prima delle questioni da
affrontare con determinazione nell’ambito di uno Stato che voglia
recuperare pienamente il superamento della ‘democrazia per ceti’ a
favore di una ‘democrazia di massa’ capace di farsi carico, di
rappresentare e integrare le masse nello Stato.
Tanto ricordato
del ruolo fondamentale della cultura (e per questo dell’assoluta
centralità della istruzione pubblica) e della politica (per assicurare
effettività alla partecipazione), rimane comunque che una riflessione
può farsi con riguardo all’esigenza di forme istituzionali politicamente
adeguate a rappresentare la volontà del superamento dello stallo
politico-istituzionale nel quale da tempo il Paese si è ricacciato.
Per tali forme istituzionali si potrebbe ipotizzare il ricorso a intese
interregionali forti (e in qualche modo obbligatorie), ovvero a
macro-regioni già ipotizzate in dottrina47. In ambedue i casi
saremmo in presenza di un aggravamento procedurale dovuto al necessario
procedimento di revisione costituzionale. Una simile idea è stata da
tempo illustrata da autorevoli studiosi, ancorché senza ricadute di
pregio nel dibattito pubblico (né in senso adesivo né per contrastarla).
Si tratterebbe, in questa ottica, di progettare e mettere in campo un
nuovo soggetto istituzionale, un “vero e proprio Stato federale del
Mezzogiorno”48. Un’idea, quest’ultima, che porta a
concludenza operativa progettazioni suggerite da riconosciuti
conoscitori della questione meridionale, come Guido Dorso49 e Gaetano Salvemini50,
e che suggerisce forme autonome di governo del Mezzogiorno,
naturalmente ancorate ad un quadro costituzionale “autenticamente
federalista”.
In tale ottica, si tratterebbe di superare l’attuale regionalismo “che
ha frammentato la questione meridionale, favorendo la formazione di
clientele locali e perdendo di vista l’unità del problema”51,
in favore di un “governo del Mezzogiorno come soggetto politico
unitario”, capace di affrontarne le grandi tematiche di struttura
(economica, politica e istituzionale) e di prospettiva.
La novità
più significativa di una simile idea risiederebbe nel superamento delle
attuali concrezioni presenti (ancorché in forme e intensità diverse)
nel regionalismo meridionale, a favore di una nuova intesa, di un nuovo
patto
politico e istituzionale (ma anche costituzionale) che
individua l’ambito ottimale per il governo degli interessi in campo in
ragione della dimensione degli interessi e dunque allargandone la
prospettiva al macroterritorio meridionale.
Un simile processo –
secondo tale idea progettuale – potrebbe validamente accompagnare il
(necessario) ricambio della classe politica meridionale, avviando la
formazione di un nuovo ceto politico regionale (competente, giovanile,
dotato di etica pubblica e orientato politicamente) con capacità di
governo adeguate alle sfide di un territorio allargato che, nei fatti,
coincide più o meno con l’ambito territoriale di sovranità dell’antico
Regno delle Due Sicilie (dal basso Lazio fino alle regioni meridionali e
alla Sicilia, includendo l’Abruzzo e il Molise).
Un simile progetto, inoltre, guarderebbe all’Europa come nuovo ambito
dimensionale e istituzionale al quale aprirsi per la soluzione dei
problemi locali. Esso assicurerebbe alla stessa unità del Paese di
potersi rinsaldare sulla base di una unità che valorizza i territori, li
rinsalda in una rete solidaristica, li riconosce quali portatori di
culture proprie da proteggere, li rafforza in un inedito e più forte
federalismo che guarda alla Europa misurandosi con le realtà regionali
più mature.
5. Unificazione politica e modelli di governo locale
Tali
tematiche, oltre alle più generali questioni poste dalla
implementazione (legislativa e amministrativa) della riforma regionale,
coinvolgono la stessa questione delle forme di organizzazione
territoriale del potere, in breve la forma di Stato e i relativi modelli
di governo locale.
Se i corpi sociali, che un tempo erano parte di ordinamenti statuali
diversi, si sono riunificati nella formazione dello Stato italiano, é
importante approfondire l’origine e lo statuto giuridico dei governi
regionali e locali. In tale ottica, è importante cogliere, in materia di
rapporti fra centro e periferia, le modalità di formazione e di
evoluzione dello Stato liberale, fino alle soluzioni offerte dalla
Costituzione repubblicana, nella parte in cui statuisce che l’Italia è
“una e indivisibile”.
Il modello di governo locale che resterà
vigente fino alla Costituzione repubblicana si è fissato
nell’ordinamento italiano intorno alla metà dell’800 ed è rimasto
pressoché inalterato fino ai primi anni ’90 del secolo che abbiamo
appena lasciato alle spalle52. Il testo normativo, dal quale
sono state tradizionalmente create e ordinate le istituzioni “storiche”
del governo locale italiano è la legge comunale e provinciale (del
1865).
L’occupazione napoleonica prima, e l’istituzione del
Regno italiano, dopo, avevano prodotto la diffusione in tutti gli Stati
italiani del sistema francese di governo locale, sistema che venne
conservato anche con la estaurazione. In sintesi, il sistema francese di
governo locale, delineato in modo definitivo dal regime napoleonico,
costituiva elemento essenziale e coerente della complessiva struttura
accentrata dello Stato propria di quel regime.
Esso s’ispirava fondamentalmente a due criteri fondamentali: quello
della totale uniformità delle strutture amministrative locali,
egualmente formate e dotate di competenze omologhe per tutto il
territorio statale e il principio della limitata autonomia degli enti
locali, rigidamente “governati” dall’apparato statale: dal Ministro
dell’Interno e, soprattutto, dai Prefetti come suoi rappresentanti
locali (donde il nome di “sistema prefettizio”) fino agli Intendenti di
Finanza.
La sola eccezione alla generale diffusione del modello francese
negli Stati italiani era rappresentata dal Lombardo-Veneto, in cui
vigeva l’ordinamento voluto da Maria Teresa d’Austria nel 1755, e
ripristinato con modificazioni nel 1816.
Questo modello si presentava per molti profili come antitetico al
modello francese: esso disponeva la classificazione e una certa diversa
organizzazione dei comuni, al posto della loro uniformità organizzativa;
e, soprattutto, appariva più rispettoso dell’autonomia degli enti e
delle comunità locali, in quanto prevedeva l’elezione (e non la nomina
dall’alto) di tutti gli amministratori locali, prevedendo forme di
democrazia diretta nei piccoli comuni.
Con la prima Legge comunale del 185953,
l’Italia abbandona il (più aperto) modello lombardo-veneto, contenente
forme di elettività sia pure temperate, optando per il modello
dell’accentramento e dell’uniformismo. Quest’ultimo, prevede – nella
fase originaria – un Sindaco di nomina regia e, quali organi necessari,
il Consiglio e la Giunta, sottoposti – questi ultimi – ad un controllo
molto rigido, che qualche anno più tardi si rafforzerà ulteriormente
durante il Governo (del socialista) Giolitti. Durante la permanenza al
potere della Sinistra (1876-1903)54, si assiste ad una
riduzione dell’autonomia locale attuata mediante l’applicazione del
principio, di chiara matrice francese, dell’uniformismo amministrativo
come regola basilare di organizzazione dei governi locali.
In termini più semplici, non si riconoscono differenziazioni tra i
comuni (grandi o piccoli che siano), operando per tutti indistintamente
lo stesso modello organizzativo, lo stesso sistema di organi, lo stesso
regime di controlli; dunque, non si ha alcun riconoscimento del
pluralismo territoriale evincibile nelle forme di organizzazione del
governo locale chiamato a farsi carico delle competenze di volta in
volta assegnate dal centro.
Addirittura, nel mentre si consumava, a livello territoriale, un
dibattito volto a definire un modello di governo locale in qualche modo
più espressivo delle comunità locali, viene prevista una riserva di
giustizia per il Prefetto e per il Sindaco. Per questi soggetti
dell’ordinamento locale e decentrato, cioè, l’eventuale sottoposizione a
giudizio era subordinata ad una previa autorizzazione regia,
palesandosi in tal modo la piena consustanzialità al potere centrale
delle istituzioni locali.
Su questa originaria connotazione si
sono innestate, ancorché senza successo, gli intenti riformisti di
Cavour e di due suoi ministri degli interni, Farina e Minghetti. La
svolta centralizzatrice si ebbe con i decreti del 9 ottobre 1861, con i
quali si segnava la fine dell’autonomia toscana e della luogotenenza di
Napoli, a cui si estendeva la legge Rattazzi55. Consumata la
spinta autonomistica, l’emanazione della prima legge comunale e
provinciale italiana avvenne nel quadro dell’operazione di unificazione
legislativa compiuta nel 1865.
Con Minghetti, per la prima volta, le regioni si affacciano nel panorama
delle istituzioni locali della neonata Italia unita. Questo Ministro
degli Interni (ed importante uomo politico del tempo) immagina un
‘regionalismo per unire’ e non per dividere e, dunque, un ruolo delle
regioni nel quale queste ultime erano chiamate ad agevolare il processo
di unificazione ed essere strumento provvisorio di governo locale. Il
disegno immaginato da Minghetti per le regioni e per il sistema locale,
in realtà, si è scontrato con una storia alquanto diversa56.
Dopo Cavour e chi lo segue nel governo del Paese, sia Crispi ma
soprattutto Giolitti, i controlli sugli enti locali, infatti, si fanno
talmente puntuali e pedissequi da accompagnarsi con forme di controllo
sostitutorio (scioglimento dei consigli comunali e provinciali), come
forme di sanzione, tutte le volte che tali organi e soggetti
territoriali avessero messo in essere comportamenti lesivi delle leggi.
Giolitti spinge ancora oltre l’accentramento, intensificandolo, pur se
la sua formazione politica avrebbe dovuto, piuttosto, portarlo a
riconoscere forme di deciso decentramento. Dove Giolitti, in realtà,
opera uno spazio di apertura è nel campo della municipalizzazione dei
servizi pubblici; la legge del 1903, per la prima volta, riconosce uno
spazio importante ai municipi in materia di esercizio di alcuni servizi
mediante consorzi, società municipali.
Si trattava di un fenomeno, che si veniva sviluppando sotto la spinta
socialista, e attraverso la quale i Comuni andavano alla ricerca di una
loro identità e di un loro ruolo sociale e politico.
la 6ª parte del presente saggio è stata riportata [qui].
UNITA' D'ITALIA E MEZZOGIORNO
Pubblicato il 16/09/2010
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