1. Unità d’Italia e idea di Nazione

di Silvio Gambino (UniCal)

Due letture appena ultimate, la prima, un bel saggio storico di Giorgio Ruffolo (Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, 2009), la seconda, un fondo lungo di Luca Ricolfi, apparso ieri su La Stampa (I veri nemici del federalismo), profondo come al solito, mi portano a offrire al lettore di questo quotidiano qualche riflessione sulle culture (risalenti e recenti) e sulle pratiche di autonomismo territoriale del Paese, che possano accompagnarlo alle imminenti celebrazioni dei 150 anni della unificazione politica dell’Italia e, al contempo, aiutarlo nella lettura dei primi passi della implementazione del federalismo fiscale. Naturalmente, in questa sede potremo procedere per riflessioni solo accennate.

Centocinquanta anni ci separano dalla proclamazione del Regno d’Italia, a Torino, nel marzo del 1861, che in tal modo concludeva la “fase calda”, eroica, del Risorgimento italiano, che tante passioni civili era riuscito a promuovere e con esse tanti eroismi. Senza di essi le pur importanti disponibilità diplomatiche della Francia ma soprattutto della Gran Bretagna a consentire “l’impresa dei Mille” non sarebbero riuscite nell’intento di sostenere una unificazione dell’Italia che poteva essere desiderata e sostenuta dall’Europa del tempo, alla condizione, tuttavia, che non lo si affermasse in modo espresso. Il diritto internazionale (del tempo), la posizione di Roma e del Papato e il Regno delle Due Sicilie non lo avrebbero consentito.

Mazzini, Garibaldi e Cavour, ognuno per la sua parte, ne erano stati gli ideatori e i valenti attuatori. L’analisi del Risorgimento e dell’Unità d’Italia dovrebbe tornare ad occupare un posto importante nelle scuole del Paese. Senza timori da parte di nessuno. Né nelle terre un tempo del Lombardo Veneto, né in quelle un tempo del Papato, né infine in quelle un tempo del Regno delle Due Sicilie. Se proprio, dal Sud, qualcosa di aggiuntivo dovesse essere ricordato a chi questa Unità oggi pare non apprezzare, questo consiste nel ricordare che un contributo importante e risolutivo alla unificazione politica è venuta appunto dal Nord, dal Piemonte in primis, dalla Lombardia e per essi dalla lungimirante intellighentia liberale e democratica del tempo.

L’unificazione politica del Paese costituisce una sfida storica che non ammette ripensamenti tardivi. Né a Nord né a Sud del Paese! Con le annessioni assistite da plebisciti, prima, e con l’unificazione, poi, si trattava di ricostruire un senso di appartenenza nazionale capace di riunificare ben 12 stati (ridotti a 9 dal Congresso di Vienna  del 1815 e poi subito dopo a 7), che ne costituivano la base storica di riferimento. D’altra parte, nel tempo, non si disponeva di una lingua comune a tutto favore di lingue dialettali. In una parola, il successo della unificazione politica del Paese appare tanto più sorprendente quando si consideri che nella fase calda del Risorgimento italiano, nel “caldo 1848”, mancava del tutto in Italia l’idea di uno Stato unico quale espressione di una Patria comune. Forte al contrario permaneva lo spirito municipalistico, almeno al Nord del Paese.
Tanto per ricordare come la necessità politica di una idea di Nazione italiana ha costituito per decenni il portato di élites ampiamente minoritarie, ma capaci, cionondimeno, di disegnare, per una configurazione geografica, quale era l’Italia del tempo, lo spazio di una necessaria ricongiunzione sotto l’unico tetto di uno Stato riunificato. Intellettuali e politici come Mazzini, Cattaneo, Gioberti e i Savoia – ognuno di essi per la sua parte – avevano tratteggiato progetti di unificazione politica del Paese, secondo un modello repubblicano-centralistico (Mazzini), repubblicano-federale (Cattaneo), monarchico-federale (Gioberti). Oggi sappiamo che su tutti ha vinto l’idea monarchico-centralistica guidata dai Savoia, alla quale hanno contribuito in modo risolutivo, e ognuno per la sua parte, le competenze militari e politiche di Garibaldi e quelle diplomatiche e politiche di Cavour.
Viste in questa ottica, le idealità e le tensioni democratiche espresse nel corso del Risorgimento, con le sollevazioni che lo hanno accompagnato e con le guerre di indipendenza (soprattutto) dalla dominazione austriaca, hanno parzialmente fallito rispetto agli obiettivi attesi di democratizzazione dello Stato, con l’esito non certo esaltante – come bene osserverà Giovanni Spadolini – del consolidamento della monarchia (sabauda) e della piemontesizzazione del sud.

In ragione dello spirito che ha promosso e accompagnato i moti risorgimentali – uno spirito liberale, anticlericale e nel fondo illuminista – l’esito di un simile processo di unificazione, visto dal sud e dalle sue popolazioni, merita adeguati approfondimenti. Storici accreditati hanno letto nell’affermazione del Risorgimento “la frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura con il Meridione” (L. Del Boca, Indietro Savoia, 2003).  Come osserverà uno storico inglese che ha studiato il processo di unificazione, Denis Mack Smith, “contrariamente alla versione raccontata sui libri della storia ufficiale, il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento”. Paolo Mieli vi aggiunge “… la stagione risorgimentale e post-risorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri … il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero sud …” (la Stampa, 19 maggio 2001).

La breve ricostruzione di alcuni passaggi storici e degli attori della Unità d’Italia dovrebbero portarci a richiamare le tesi interpretative più significative sul Risorgimento italiano, quella positiva di Benedetto Croce, e quella negativa di Antonio Gramsci. Siamo costretti a rinviarne l’analisi ad altro momento. Allo stato, le brevi riflessioni svolte ci possono portare a chiudere questo primo approccio al tema che ci siamo riproposti di affrontare osservando che il Risorgimento costituisce comunque un evento centrale nella storia politica del Paese.

Tuttavia, non può non osservarsi come, realizzata la unificazione politica rispetto alla molteplicità e varigatezza delle statualità che inizialmente componevano gli scenari statuali presenti in Italia, era evidente come l’unità fosse lungi dall’essere stata realizzata. Lo era 150 anni fa , lo è tuttora con un non superato dualismo Nord-Sud, che ci ripromettiamo di riprendere su questo stesso Quotidiano nei prossimi giorni. Fatta l’Italia, si trattava di prendere atto che mancavano ancora gli italiani e occorreva attendere adeguatamente a tale scopo. Rispetto a tale obiettivo, il modello seguito dai Savoia, quello dell’accentramento-centralizzazione amministrativa, potrebbe apparire perfino obbligato. A suo tempo, il modello federale-confederale di Cattaneo non ebbe successo. La ricostruzione di una base culturale comune degli italiani fu da alcuni leaders individuata nell’educazione e nelle riforme istituzionali (Spaventa, Minghetti, Sella, Depretis, Giolitti) mentre da altri nella guerra (Crispi, Mussolini). Gli uni e gli altri hanno fallito nel loro obiettivo consegnando alla breve storia di un “paese troppo lungo” e dalla storia molto complessa il compito di farlo. Il dibattito attuale nel Paese, nel suo 150 Anniversario, nel fondo, rimane ancora questo. Quale ruolo assegnare allo Stato nella unificazione politica del Paese, nella ri-creazione di una idea di nazione che surroghi la risalente idea di Patria? Quale spazio può giocare in questa direzione la valorizzazione ultra vires dell’autonomia politica regionale, a fronte di un quarantennio di esperienza fallimentare (se si fa eccezione per qualche limitata regione)? Ne parleremo domani affrontando il tema della riforma del regionalismo che più di uno si ostina tuttora a definire federalismo.

 

 

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