2. Unità d’Italia e Questione meridionale

di Silvio Gambino (UniCal)

Leggendo la storia senza la stupida pretesa di pensare di poterne modificare o incrinare il percorso già effettuato, occorre osservare come il Risorgimento e l’Unificazione del Paese hanno indubbiamente risolto importanti problemi, superando una frammentazione di stati e staterelli nonché un significativo divario culturale ed economico che avrebbe escluso l’Italia dal consesso delle grandi potenze europee (ma anche internazionali, come pure avvenne successivamente). Quello che l’Unità d’Italia, nelle forme storicamente seguite, non poteva risolvere era il deficit conoscitivo, da parte della Casa Savoia, delle condizioni profondamente eterogenee del Paese, drammaticamente esasperate al sud; ciò tanto più dopo la precoce morte di Cavour, un leader competente e capace di cui il Paese forse non ha conosciuto pari nel seguito della sua storia nazionale. In ogni caso, la destra storica, che si è fatta carico di guidare i primi passi del neo-nato Regno d’Italia – e a cui obiettivamente non si può addebitare né carenza di competenza o di integrità né patriottismo – a queste condizioni si è trovata a dare le risposte che erano non certo quelle più adeguate quanto piuttosto quelle concretamente disponibili e che godevano di un know how istituzionale immediatamente utilizzabile: una organizzazione costituzionale dei poteri dello Stato di tipo accentrato, con una articolazione territoriale  dei poteri amministrativi di tipo uniforme e soggetta al vigile controllo preventivo e successivo dello Stato.

In questa organizzazione dello Stato non c’era molto spazio per la differenziazione amministrativa, e almeno inizialmente nemmeno per la elettività delle cariche di vertice nelle amministrazioni territoriali. Il Nord con le esperienze di amministrazione municipale ispirate alle idee e alle pratiche del Lombardo Veneto, di ascendenza austriaca, ha indubbiamente sofferto una conformazione indebita, a livello di efficienza dei servizi amministrativi, alle pratiche e ai modelli amministrativi delle regioni meridionali. Per il Sud, lo Stato liberale post-unitario ha invece individuato e usato il modello del bastone. Il decennio del brigantaggio, quale manifestazione di tutti i malesseri di un meridione dai problemi assolutamente sconosciuti dai governanti piemontesi, come si ricorderà, viene superato con la sospensione delle garanzie costituzionali e con una repressione militare senza pari (legge Pica), lasciando nel sud una scia di rancore che si può ben immaginare capace di consolidare giudizi di astio e di disprezzo verso il Nord.

I Savoia, in breve, e con essi il Nord del Paese, hanno ben presto dimenticato le ragioni della unificazione. Invero, non bisognerà attendere molto perché questo avvenga quando si considera come uno dei garibaldini della prima ora, Nino Bixio, scrivendo alla moglie circa la vita e i costumi delle popolazioni del Mezzogiorno osservava (siamo nel 1863) “Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o spopolare e mandarli in Africa a farsi civili”. Se opinioni di questo tipo erano espresse da patrioti al servizio di Garibaldi, si può ben immaginare quale fosse il pensiero che allignava nel ceto nobiliare e borghese del Nord a proposito del sud in generale.

Come osserva nel suo saggio Giorgio Ruffolo, “gli italiani (‘i piemontesi’) in tutti i modi si comportarono tranne che come liberatori. Delusero le speranze delle plebi contadine, per le quali la parola ‘libertà’ non aveva altro significato che l’aspirazione alla terra e alla liberazione dalla fame. Introdussero nuove e più pesanti vessazioni fiscali, amministrative, militari. Assunsero fin dall’inizio modi di superiorità sprezzante. Non soltanto verso le plebi contadine. Anche verso quella classe di ‘galantuomini’ subentrata in parte all’aristocrazia feudale e che, per parte sua, si comportò durante la repressione in modo più che ambiguo”. Insomma, un dolente cahier de doleance che non si può far finta di trascurare se si vuole riprendere e superare quel processo di differenziazione nord-sud, che tuttora conosce molte manifestazioni problematiche, che vanno dal carente senso civico (di una parte) delle popolazioni meridionali, al radicamento delle mafie, alla lottizzazione (clientelare) dello Stato e delle amministrazioni territoriali con conseguente svalutazione e appropriazione privata della funzione pubblica, alla occupazione burocratica dello Stato (che Cassese ha descritto come ‘meridionalizzazione della burocrazia pubblica’). “La verità – come osserva ancora Ruffolo – è che il Nord, una volta annesso il Sud politicamente, ha proseguito per conto suo”. Un’analisi, quest’ultima, amara e sconsolata che pare difficile contestare (se mai se ne avesse la volontà, come non è). A fronte di questo scenario, un solo dato per tutti per ricordare come il Sud ha provato a risolvere i suoi problemi di sostanziale abbandono nella fase post-unitaria: dal 1861 ai primi anni ‘70 del ‘900, circa ventisette milioni di italiani si sono trasferiti all’estero; nei soli primi venti anni del ‘900, dei 4.711.000 italiani emigranti in America, ben 3.374.000 provenivano dal Mezzogiorno. Sono cifre che confrontate con l’emigrazione africana odierna fanno seriamente riflettere sul vero e proprio spopolamento dell’Italia a seguito dei processi di unificazione politica del Paese.

Saltando a più pari il periodo storico del fascismo (come non bisognerebbe fare), e senza profonderci (come pure vorremmo) nelle vicende dell’attualità, segnate dall’emergere di un “populismo privatistico e ludico” (la definizione è sempre di Giorgio Ruffolo), lo scorrere degli eventi economici e politici soprattutto dell’ultimo ventennio disegnano scenari allarmanti di “minaccia di decomposizione nazionale”. A voler seguire questa analisi, lucida e senza molte titubanze, insomma, ci troverremmo di fronte al fallimento della unificazione nazionale dell’Italia e con essa al venir meno, ora per allora, del consenso popolare che, senza differenze geografiche nel Paese, aveva portato alla edificazione di uno Stato nazionale nato dalla confluenza di storie e di percorsi diversi.

La ‘questione meridionale’, in questa ottica autorevolmente frequentata (da Fortunato a Salvemini, da Gramsci a Dorso, da Nitti a Saraceno), in breve, non è una questione di forme di articolazione territoriale del potere statale, di regionalismo piuttosto che di federalismo. La questione nodale era e resta quella di riannodare un nodo storico doloroso, colmando un solco profondo che “la conquista regia delle due Sicilie” aveva tracciato e che non si è mai rimarginato. Se questa osservazione cogliesse nel segno, si tratterebbe di ripensare più in grande alle problematiche che maggiormente attraversano ora il Paese: da una parte la “rivolta nordista”, ancorché le forme nella quale si concretizzano assumono più le forme della jacquerie che quelle di una questione seriamente allarmante, e dall’altra – questa sì fortemente preoccupante – della “deriva mafiosa”, della vera e propria occupazione, della gran parte delle regioni del sud da parte delle mafie. Il sud lasciato a se stesso diventerebbe facile preda della occupazione/lottizzazione mafiosa, con effetti sulla società, sulle istituzioni e sui singoli che si possono facilmente immaginare. Il nord, a sua volta, rischia di portare a buon fine quella secessione fredda che un accordo politico all’interno della maggioranza parlamentare pare agevolmente dischiudergli. Evitare il primo e il secondo dei possibili esiti della crisi politica in corso da tempo impone forze politiche chiaramente legittimate e soluzioni istituzionali all’altezza della sfida da vincere. Che rimane pur sempre quella di consolidare una Unità nazionale capace di riconoscere e di riconoscersi nel pluralismo istituzionale dei suoi territori, come cercheremo di argomentare meglio nel prossimo intervento su questo stesso giornale.

 

 

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